Δευτέρα 24 Σεπτεμβρίου 2012

SABOTIAMO L' EUROPA DELLE BANCHE


La stagione politica conclusasi a luglio non è certo stata di ordinaria amministrazione. A fine 2011 l’Italia viene commissariata dal capitalismo europeo a guida tedesca e i lavoratori e il ceto medio sottoposti a una spremitura senza eguali, in nome dell’Euro e del rigore di bilancio, unico argine - così ci hanno spiegato - alla crescita vertiginosa dello spread. Ma tecnici ed esperti hanno dimostrato di essere soltanto dei venditori di fumo. Quando Monti afferma che se al go-verno ci fosse Berlusconi lo spread sarebbe a 1200 tradisce un comprensibile nervosismo: a quasi un anno di distanza dal suo arrivo il differenziale tra i Bund tedeschi e i nostri titoli è risalito ai livelli di ‘quando c’era lui’.
 

D’altra parte tutti i governi dal ‘92 in poi hanno fallito proprio là dove si erano impegnati a ottenere dei risultati, cioè sul terreno del ‘risanamento’ dei conti. Qualche mese fa l’ultraliberista Oscar Giannino dimostrava che dei 1900 miliardi di debito pubblico soltanto 800 miliardi sono un lascito della Prima Repubblica. Mentre i governi avvicendatisi fino al ’92 creavano in media circa 47,5 milioni di euro di debito pubblico al giorno, quelli successivi hanno posizionato l’asticella a 285 milioni al giorno (governi di transizione Amato e Ciampi), 330 (Berlusconi 1), 96 (Prodi 1), 76 (D’Alema), 124 (Amato 2 e Berlusconi 2 e 3), 97,5 (Prodi 2), 218 (Berlusconi 4). In altre parole coloro che dovevano lottare contro lo statalismo e la spesa pubblica in nome del rigore hanno moltiplicato il ritmo di accumulazione del debito da 1,5 a 7 volte e più che raddoppiato il debito complessivo. Alcuni ribattono - con una qualche ragione - che ciò che conta non è il debito pubblico in sé, ma il rapporto debito/PIL e tuttavia anche tale parametro, rimasto stabilmente sotto il 100% fino al Trattato di Maastricht (1992), da allora è oscillato tra il 100% e il 120%. Vuol dire, in termini macroeconomici, che l’intreccio tra deindustrializzazione e finanziarizzazione dell’economia, le privatizzazioni e l’impatto dell’euro sono la vera causa del nostro megaindebitamento. Volendo schematizzare: finché la spesa pubblica (incluse le sacche di spreco e di clientelismo) era funzionale allo sviluppo produttivo il sistema è rimasto in equilibrio. Quando quel rapporto si è spezzato il bubbone è esploso. Che i ‘tecnici’ non riescano a trovare la cura dimostra che sono loro la malattia. In barba alle previsioni rosee di Monti e di Moody’s (‘nel 2013 la fine della crisi’) l’austerity precipiterà l’Italia in una re-cessione senza fine, con conseguenze sociali devastanti. Loro non vogliono ridurre il debito, vogliono farlo pagare a noi. 

Finora però la spremitura sociale da parte di Monti non ha prodotto una reazione significativa. Alcune lotte ci sono state, talvolta anche intense (Fincantieri, il movimento NoTav, i taxisti e i ‘forconi’, per citarne alcuni), ma, mentre l’aggressione dall’alto è generalizzata e senza soste, la reazione dal basso è episodica, discontinua e priva di un riferimento politico organizzato, come del resto succede in Europa, dove, negli ultimi anni, momenti di fermento sociale - in Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e nella stessa Italia - si sono avvicendati senza trovare mai una qualche forma di coordinamento. Questo è il quadro in cui ci ritroveremo al ritorno dalle ferie (per chi riesce ancora a farle). E questo è il problema con cui ci misureremo quando arriveremo alla scadenza del Governo Monti e alle elezioni politiche. E tuttavia il problema non si risolve sul terreno elettorale. Chi pensa - come nel dibattito apertosi sulle colonne de Il Manifesto - che la soluzione sia costruire un fronte elettorale di sinistra scimmiottando SYRIZA o il Front de Gauche non vede che l’esplosione elettorale della sinistra greca e francese non ha avuto un impatto significativo sulla situazione sociale in quei paesi ed è mosso perlopiù da ragioni di convenienza. 

I gruppi dirigenti della sinistra infatti vedono nel crollo dei consensi di Monti un’occasione per far dimenticare i propri fallimenti e un trampolino di lancio verso una nuova ammucchiata elettorale che permetta loro di rimettere piede in Parlamento. Ma non è di questo che abbiamo bisogno, anzi. Se tutto diventa semplicemente il pretesto per costruire operazioni elettorali, ogni decisione è subordinata a esigenze di ‘posiziona-mento’ tattico. Sul caso ILVA le posizione dei partiti e dei gruppi della sinistra possono essere spiegate a partire dal perimetro delle futuribili alleanze elettorali. Chi guarda a Di Pietro e alla FIOM sta col sindacato, ma senza criticare troppo la magistratura. Chi considera il gruppo dirigente della FIOM troppo ‘vendoliano’ tifa per la magistratura. Chi sta fuori da ogni possibile alleanza elettorale spara a pallettoni su tutti i soggetti in campo. Lavoratori dell’ILVA e vittime dell’inquinamento in quest’ottica sono un semplice serbatoio di voti. Noi non abbiamo problemi a dire che stiamo con gli operai che difendono il proprio lavoro dai blitz della Procura e che siamo per bonificare e mettere in sicurezza, non per chiudere l’acciaieria. 

D’altra parte il nostro obiettivo immediato nella prossima stagione politica non è prepararsi alle elezioni, ma intervenire nel conflitto di classe, dove esso si manifesta, per bloccare o rallentare l’attuazione dei diktat europei. Ogni giorno che i cantieri dell’alta velocità rimangono fermi è una piccola battaglia vinta; ogni iniziativa contro la privatizzazione di Finmeccanica è un granello di sabbia nell’ingranaggio delle privatizzazioni volute dall’UE a trazione tedesca. Al con-tempo vogliamo proporre a chi resiste di darsi una rappresentanza politica unita-ria e indipendente e di battersi per un modello sociale alternativo al capitalismo. A Genova il sindaco ‘arancione’ Marco Doria, candidato vittorioso del centrosinistra in primavera, dopo aver battuto il PD alle primarie, ha deciso, con un blitz estivo e senza alcun confronto col sindacato, di privatizzare il trasporto pubblico. Le motivazioni non sono originali: non ci sono soldi, il costo del lavoro è troppo alto e bisogna evitare il falli-mento. In autunno la discussione entrerà nel vivo: aumento dell’orario di lavoro, riduzione del salario, cassa integrazione. A Genova noi vogliamo e possiamo ostacolare quell’operazione. Riuscire a farlo vorrebbe dire rallentare l’attuazione dei diktat europei sulle privatizzazioni in una grande città italiana e dimostrare a 2400 lavoratori dell’azienda in questione, a centinaia di migliaia di lavoratori/utenti e al paese che i sindaci arancioni e l’attuale sinistra non rappresentano un’alternativa reale al partito trasversale che sostiene Monti e si genuflette davanti all’Euro e allo spread. E anche che, mentre qualcuno pensa che i referendum possano sostituire la lotta, in realtà è soltanto la lotta che può rendere esigibile la vittoria referendaria sui ‘beni comuni’. A Genova siamo l’unica forza a sinistra che può e vuole farlo e in Italia siamo gli unici che stanno cercando di costruire un coordinamento tra autoferrotranvieri di Genova, Torino, Milano (l’assenza del sindacato da questo punto di vista è scandalosa). Lo facciamo perché pensiamo che soltanto a partire da questo tipo di intervento, piccoli atti concreti, che incidono però sulla vita e sulle coscienze di decine di migliaia di lavoratori e di giovani (e non nei convegni o nei dibattiti tra ex ministri, ex ospiti di Bruno Vespa e segretari di ex partiti) che è possibile costruire una nuova prospettiva politica e progettare un’altra società.


pubblicato il 2012-09-10 sul sito www.controcorrentesinistraprc.org

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