La stagione politica conclusasi a luglio non è certo stata di ordinaria
amministrazione. A fine 2011 l’Italia viene commissariata dal capitalismo
europeo a guida tedesca e i lavoratori e il ceto medio sottoposti a una
spremitura senza eguali, in nome dell’Euro e del rigore di bilancio, unico
argine - così ci hanno spiegato - alla crescita vertiginosa dello spread. Ma
tecnici ed esperti hanno dimostrato di essere soltanto dei venditori di fumo.
Quando Monti afferma che se al go-verno ci fosse Berlusconi lo spread sarebbe a
1200 tradisce un comprensibile nervosismo: a quasi un anno di distanza dal suo
arrivo il differenziale tra i Bund tedeschi e i nostri titoli è risalito ai
livelli di ‘quando c’era lui’.
D’altra parte tutti i governi dal ‘92 in poi hanno fallito proprio là dove si
erano impegnati a ottenere dei risultati, cioè sul terreno del ‘risanamento’
dei conti. Qualche mese fa l’ultraliberista Oscar Giannino dimostrava che dei
1900 miliardi di debito pubblico soltanto 800 miliardi sono un lascito della
Prima Repubblica. Mentre i governi avvicendatisi fino al ’92 creavano in media
circa 47,5 milioni di euro di debito pubblico al giorno, quelli successivi
hanno posizionato l’asticella a 285 milioni al giorno (governi di transizione
Amato e Ciampi), 330 (Berlusconi 1), 96 (Prodi 1), 76 (D’Alema), 124 (Amato 2 e
Berlusconi 2 e 3), 97,5 (Prodi 2), 218 (Berlusconi 4). In altre parole coloro
che dovevano lottare contro lo statalismo e la spesa pubblica in nome del
rigore hanno moltiplicato il ritmo di accumulazione del debito da 1,5 a 7 volte e più che
raddoppiato il debito complessivo. Alcuni ribattono - con una qualche ragione -
che ciò che conta non è il debito pubblico in sé, ma il rapporto debito/PIL e
tuttavia anche tale parametro, rimasto stabilmente sotto il 100% fino al
Trattato di Maastricht (1992), da allora è oscillato tra il 100% e il 120%.
Vuol dire, in termini macroeconomici, che l’intreccio tra deindustrializzazione
e finanziarizzazione dell’economia, le privatizzazioni e l’impatto dell’euro
sono la vera causa del nostro megaindebitamento. Volendo schematizzare: finché
la spesa pubblica (incluse le sacche di spreco e di clientelismo) era funzionale
allo sviluppo produttivo il sistema è rimasto in equilibrio. Quando quel
rapporto si è spezzato il bubbone è esploso. Che i ‘tecnici’ non riescano a
trovare la cura dimostra che sono loro la malattia. In barba alle previsioni
rosee di Monti e di Moody’s (‘nel 2013 la fine della crisi’) l’austerity
precipiterà l’Italia in una re-cessione senza fine, con conseguenze sociali
devastanti. Loro non vogliono ridurre il debito, vogliono farlo pagare a noi.
Finora però la spremitura sociale da parte di Monti non ha prodotto una
reazione significativa. Alcune lotte ci sono state, talvolta anche intense
(Fincantieri, il movimento NoTav, i taxisti e i ‘forconi’, per citarne alcuni),
ma, mentre l’aggressione dall’alto è generalizzata e senza soste, la reazione dal
basso è episodica, discontinua e priva di un riferimento politico organizzato,
come del resto succede in Europa, dove, negli ultimi anni, momenti di fermento
sociale - in Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e nella stessa Italia - si
sono avvicendati senza trovare mai una qualche forma di coordinamento. Questo è
il quadro in cui ci ritroveremo al ritorno dalle ferie (per chi riesce ancora a
farle). E questo è il problema con cui ci misureremo quando arriveremo alla
scadenza del Governo Monti e alle elezioni politiche. E tuttavia il problema
non si risolve sul terreno elettorale. Chi pensa - come nel dibattito apertosi
sulle colonne de Il Manifesto - che la soluzione sia costruire un fronte
elettorale di sinistra scimmiottando SYRIZA o il Front de Gauche non vede che
l’esplosione elettorale della sinistra greca e francese non ha avuto un impatto
significativo sulla situazione sociale in quei paesi ed è mosso perlopiù da
ragioni di convenienza.
I gruppi dirigenti della sinistra infatti vedono nel crollo dei consensi di
Monti un’occasione per far dimenticare i propri fallimenti e un trampolino di
lancio verso una nuova ammucchiata elettorale che permetta loro di rimettere
piede in Parlamento. Ma non è di questo che abbiamo bisogno, anzi. Se tutto
diventa semplicemente il pretesto per costruire operazioni elettorali, ogni
decisione è subordinata a esigenze di ‘posiziona-mento’ tattico. Sul caso ILVA
le posizione dei partiti e dei gruppi della sinistra possono essere spiegate a
partire dal perimetro delle futuribili alleanze elettorali. Chi guarda a Di
Pietro e alla FIOM sta col sindacato, ma senza criticare troppo la
magistratura. Chi considera il gruppo dirigente della FIOM troppo ‘vendoliano’
tifa per la magistratura. Chi sta fuori da ogni possibile alleanza elettorale
spara a pallettoni su tutti i soggetti in campo. Lavoratori dell’ILVA e vittime
dell’inquinamento in quest’ottica sono un semplice serbatoio di voti. Noi non
abbiamo problemi a dire che stiamo con gli operai che difendono il proprio
lavoro dai blitz della Procura e che siamo per bonificare e mettere in
sicurezza, non per chiudere l’acciaieria.
D’altra parte il nostro obiettivo immediato nella prossima stagione politica
non è prepararsi alle elezioni, ma intervenire nel conflitto di classe, dove esso
si manifesta, per bloccare o rallentare l’attuazione dei diktat europei. Ogni
giorno che i cantieri dell’alta velocità rimangono fermi è una piccola
battaglia vinta; ogni iniziativa contro la privatizzazione di Finmeccanica è un
granello di sabbia nell’ingranaggio delle privatizzazioni volute dall’UE a
trazione tedesca. Al con-tempo vogliamo proporre a chi resiste di darsi una
rappresentanza politica unita-ria e indipendente e di battersi per un modello
sociale alternativo al capitalismo. A Genova il sindaco ‘arancione’ Marco
Doria, candidato vittorioso del centrosinistra in primavera, dopo aver battuto
il PD alle primarie, ha deciso, con un blitz estivo e senza alcun confronto col
sindacato, di privatizzare il trasporto pubblico. Le motivazioni non sono
originali: non ci sono soldi, il costo del lavoro è troppo alto e bisogna
evitare il falli-mento. In autunno la discussione entrerà nel vivo: aumento
dell’orario di lavoro, riduzione del salario, cassa integrazione. A Genova noi
vogliamo e possiamo ostacolare quell’operazione. Riuscire a farlo vorrebbe dire
rallentare l’attuazione dei diktat europei sulle privatizzazioni in una grande
città italiana e dimostrare a 2400 lavoratori dell’azienda in questione, a
centinaia di migliaia di lavoratori/utenti e al paese che i sindaci arancioni e
l’attuale sinistra non rappresentano un’alternativa reale al partito
trasversale che sostiene Monti e si genuflette davanti all’Euro e allo spread.
E anche che, mentre qualcuno pensa che i referendum possano sostituire la lotta,
in realtà è soltanto la lotta che può rendere esigibile la vittoria
referendaria sui ‘beni comuni’. A Genova siamo l’unica forza a sinistra che può
e vuole farlo e in Italia siamo gli unici che stanno cercando di costruire un
coordinamento tra autoferrotranvieri di Genova, Torino, Milano (l’assenza del
sindacato da questo punto di vista è scandalosa). Lo facciamo perché pensiamo
che soltanto a partire da questo tipo di intervento, piccoli atti concreti, che
incidono però sulla vita e sulle coscienze di decine di migliaia di lavoratori
e di giovani (e non nei convegni o nei dibattiti tra ex ministri, ex ospiti di
Bruno Vespa e segretari di ex partiti) che è possibile costruire una nuova
prospettiva politica e progettare un’altra società.
pubblicato il 2012-09-10 sul sito www.controcorrentesinistraprc.org